venerdì 29 gennaio 2010

Haiti, la storia si ripete

Si dice che le disgrazie non vengono mai sole. E in questo momento nessuno come il popolo haitiano lo sa così bene. A un terremoto che ha causato più di 170000 vittime, senza contare i senza tetto e i feriti, si aggiunge la mancanza di generi alimentari e sanitari, dovuto all'embargo che l'esercito americano in questo momento sta imponendo agli isolani. E come se non bastasse l'occupazione di un esercito straniero.
Ovviamente tutto questo non viene minimamente accennato dai media occidentali e filo-americani. Lì si declama semmai lo straordinario sostegno che le truppe d'oltreoceano stanno dando alla popolazione. Ma è veramente così, oppure è in corso nell'isola centroamericana uno dei più clamorosi inganni della storia perpetrato da una potenza mondiale che non è nuova a questo “doppio gioco”?
In passato Haiti ha dovuto ripetutamente subire “l'impegno umanitario” degli statunitensi. Già nel 1915 l'isola fu occupata da Washington che vi lasciò un proprio contingente. Il presidente Aristide, eletto due volte con schiacciante maggioranza e amato dal suo popolo, fu deposto da un colpo di stato nel 2004.
Ora sembra che gli Usa stiano preparando un nuovo colpo di mano. Non si spiega altrimenti la presenza di oltre 12000 marines, di una portaerei, di due incrociatori, di un cacciatorpediniere, di una fregata, e molto altro del potente arsenale bellico di cui dispone la U.S. Navy. C'è da chiedersi a cosa serve un tale spiegamento di forze per soccorrere una popolazione terremotata, precipitata nella miseria in un paese sull'orlo del collasso. Per domare la comprensibile ribellione della popolazione? E a cosa serve una portaerei (non solo quella americana)? Forse pensano di bombardare i disperati senza casa e sena cibo?
Un aiuto umanitario davvero singolare, offerto da uomini dei corpi speciali cui è stato insegnato ad uccidere e che ora dovrebbero invece salvare vite umane.
Ancora più singolare è una missione umanitaria senza aiuti umanitari. Se si esclude qualche provvista di cibo in scatola fatto atterrare dagli aerei, quasi a far vedere che qualcosa si sta facendo (viene in mente la scena del ricco che dalla carrozza getta monete alla plebe che si affanna per contendersele) sembra che il comando militare stia facendo di tutto per impedire che gli aiuti giungano a destinazione. Il blocco aero-portuale rende davvero arduo il lavoro dei soccorritori internazionali, per non dire impossibile.
Un paese accerchiato e assediato militarmente con un embargo di fatto imposto, sarebbe questo il grande “impegno umanitario”? Lo so che adesso mi attirerò le ire di molti, ma Bertolaso non aveva tutti i torti quando denunciava la scarsa efficacia dell'intervento dei soldati e io non sono certo un suo ammiratore. Dal punto di vista del capo della Protezione civile, naturalmente, poi Bertolaso non è né un militare né un esperto di geopolitica e dunque non può sapere. Ma perché mai gli Stati Uniti dovrebbero organizzare tutto ciò? A che scopo? E qui veniamo a ciò che Bertolaso non ha detto e non poteva dire. La risposta alla domanda se ci si pensa è più che ovvia. Ed è la stessa che fu alla base degli interventi bellici in Cile, in Nicaragua, in Colombia, e in molte altre zone del pianeta: il controllo delle risorse minerarie.
Haiti è un territorio estremamente ricco di petrolio, oltre che di Uranio e di altri minerali. Questo lo rende, per sua sfortuna, una preda assai appetibile per i falchi (ma anche per le colombe) di Washington e per tutte le lobby economiche di pressione che determinano la politica della più grande potenza mondiale.
A questo punto della situazione ci sono quattro possibili scenari:
  1. Un colpo di stato in piena regola, come quello prodotto in Honduras, sotto la supervisione dei soldati Usa.
  2. La pressione sotto la minaccia delle armi per costringere il presidente Preval (che l'alleanza con l'odiato Chavez non contribuisce certo a renderlo di gradimento alla Casa Bianca) alle dimissioni e la sua sostituzione con un fantoccio telecomandato in tutto e per tutto.
  3. Il lavoro della diplomazia per ricondurre, attraverso il ricatto delle armi e la lusinga dei dollari, il Presidente Preval alla ragione, ovvero per fargli fare ciò che gli interessi lobbistici pretendono egli faccia.
  4. Manipolare le elezioni (assassini politici, intimidazioni, ricatti, brogli) per permettere la vittoria ai favoriti di Washington.

Non so quale di questi scenari si realizzerà, chissà forse nessuno dei quattro, ma penso si possa convenire che il quadro sin qui delineato appaia molto più credibile del generoso aiuto alla popolazione offerto da un esercito armato fino ai denti per ragioni inspiegabili.
La spartizione del territorio haitiano e delle sue inestimabili ricchezze sotterranee fa gola a molti, Italia compresa. Il Ministro La Russa ha previsto l'invio della portaerei Cavour, una missione che secondo lo stesso ministro dovrà costare dai 100000 ai 200000 euro al giorno, peccato che questa cifra non servirà a soccorrere i civili ma a rinfoltire una già imponente presenza militare.
Ma Haiti è una ghiottoneria cui il nostro governo non può rinunciare, e soprattutto non possono rinunciarvi le aziende italiane, come Eni e Finmeccanica, che dovrebbero finanziare l'impresa, prevedendo, evidentemente, un lauto compenso alla fine in termini di contratti e appalti.
Una notizia bomba, direte voi, peccato che è stata fatta passare in sordina dalla stampa e dalla televisione italiana. Peccato che la cosiddetta opposizione l'abbia praticamente ignorata, occupata com'era a rimproverare Bertolaso per la sua imperdonabile mancanza di rispetto verso gli americani, a cui invece bisogna obbedire ciecamente. E anche Berlusconi si è subito preoccupato di richiamare il suo fidato collaboratore per non compromettere con una simile imprudenza l'operato della consumata diplomazia italiana che finora ha servito così bene la bandiera... quella a stelle e strisce.
Lo so cosa starete pensando. Ma il Presidente degli Stati Uniti non è forse Obama? non era quello della nuova America, del cambiamento, del pace e della prosperità e di tutte le belle parole che egli con una impressionante vis retorica ha saputo snocciolare? Be', di questo ne abbiamo già parlato qui e qui.
Scusate ma un premio nobel assai discutibile e una vibrante oratoria mi paiono davvero poco come scusante. Penso che il golpe honduregno e l'occupazione di Haiti condotta speculando su una immane tragedia pesino molto di più se si è interessati a una valutazione lucida e oggettiva. Poi chi vuole continuare a illudersi faccia pure. I fatti sono quelli che sono, non li si può cambiare.


Fonti:







lunedì 25 gennaio 2010

Alieni e immigrati

Un saluto a tutti e ben ritrovati dopo questo mio lungo periodo di assenza e questa lunga vacanza di Eresia rossa (non del suo autore però!). Molti di voi forse mi avranno, comprensibilmente, abbandonato, data la mia prolungata assenza, ma spero possiate tornare numerosi. Devo dire che ci sono tanti argomenti con cui avrei voluto ricominciare. Ma probabilmente già se ne occupano, ed esaustivamente, altri blog. Perciò desidero parlarvi di un film, che consiglio caldamente di vedere. Si chiama District 9, uscito qualche mese fa, e forse alcuni di voi l'hanno già visto. È una intelligente satira sociale (anche se drammatica) di genere fantascientifico. Una nave aliena sbarca a Johannesburg (tra le righe si legge un riferimento all'apartheid) e resta ferma a causa di un guasto. La popolazione aliena della nave viene rinchiusa in un campo chiamato appunto “Distretto 9”. Gli alieni (soprannominati spregiativamente “gamberoni”) sono così costretti a vivere in una specie di “bidonville”. A seguito della crescente tensione con gli umani il governo sudafricano decide di trasferire gli alieni in un nuovo campo e incarica di farlo l'agenzia MNU rappresentata da Wikus Van De Merwe, il quale tratta gli alieni senza troppi riguardi. Tuttavia dovrà presto ricredersi a seguito di un inspiegabile evento che lo trasforma da carnefice a vittima. Mi fermo qui, nel caso non l'abbiate visto e vogliate farlo (e ve lo consiglio).
La pellicola riesce ad essere molto efficace nel rappresentare la situazione inizialmente dalla parte degli uomini, i quali non hanno molte preoccupazioni per la sorte toccata agli alieni, esseri mostruosi e orripilanti, che possono anche essere uccisi senza pietà alla minima infrazione. In seguito c'è un capovolgimento e il punto di vista diventa quello degli alieni costretti a sopravvivere duramente su un pianeta ostile.
Pensate anche voi quello che penso io? Sostituite “alieni” con “immigrati”, l'appellativo “gamberoni” con “negri”, “Distretto 9” con “Centro di Identificazione” e otterrete non la trama di un film di fantascienza, ma la realtà. Una realtà che sembra tra l'altro replicarsi periodicamente, come già è successo giorni fa nell'“accogliente” Rosarno. Questa associazione io l'ho fatta subito. È inevitabile. Non è provincialismo, il voler ricondurre tutto al cortile di casa propria. La vicenda di Rosarno è sintomatica di un fenomeno mondiale, che coinvolge la specie umana in quanto tale e la sua organizzazione sociale.
L'aspetto che la pellicola centra in pieno è la segregazione come fenomeno profondamente moderno, talmente moderno da essere trasponibile in un'opera di fantascienza. Fenomeno, purtroppo, assai sottovalutato, oggi. Si pensa alla segregazione come a qualcosa che avvenne in passato, la cui ultima e tragica apparizione fu proprio quella sudafricana. Eppure essa è sempre presente, magari sotto nuove forme. Ovunque nel mondo si trovano situazioni come queste. Basta andare in Palestina e vedere come il governo israeliano tratta i palestinesi, oppure in Cecenia, o nelle prigioni della Libia, a seguito dell'accordo col nostro governo, o nella stessa Italia. I fenomeni migratori si rafforzano, perché si inaspriscono guerre, carestie e miseria. Alle migrazioni i governi rispondono con un rifiuto oppure con la segregazione, scoraggiando in tutti i modi la mescolanza e costruendo muri, compartimenti stagni.
La caccia al negro di Rosarno non è un episodio di cronaca locale o nazionale. È una questione che sta assumendo proporzioni gigantesche e che le azioni dei governi e dei potentati economici aggravano costantemente.
La segregazione non è l'apartheid di un paio di decenni fa, il razzismo non è il lascito di un passato barbarico. È qui e ora. È questo il senso del film: è qualcosa di profondamente moderno, radicato nelle nostre società e che riaffiora non appena qualcosa di inaspettato e di diverso infrange il precario equilibrio delle nostre metropoli, o delle nostre province, che ci illudiamo di poter conservare. Non a caso il film è ambientato nel 1982. Il passato è presente. Probabilmente possiamo rassicurarci con l“'uguaglianza formale” scritta sulle leggi, o con l'apparente noncuranza che ostentiamo di fronte alla diversità, ma ciò non cancella una caratteristica profonda della nostra società. Essa è razzista strutturalmente e per costituzione: una verità sconcertante, certo, ma pur sempre una verità, come l'“esperimento virtuale” di District 9 dimostra ampiamente.